Credo che ormai non ci sia alcun dubbio che l’Italia, per quanto riguarda le regole in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro (e non solo), sia un Paese molto particolare.
Ormai posiamo dire di aver fatto l’abitudine a vedere, quando accade qualcosa di molto grave la corsa alla proposta definitiva per la risoluzione del problema.
Si può tranquillamente affermare, quindi, che il nostro sistema prevenzionale è un sistema da manutenzione a guasto.
Siamo un Paese che legifera solo sotto due tipologie di spinte:
- quelle che arrivano dalla UE sotto forma di regolamenti, direttive europee da recepire, ecc.;
- quelle emozionali-emergenziali, all’accadere di gravi eventi.
Il legislatore ci ha ormai abituati a vederlo dare il meglio di sé quando si tratta di legiferare sotto spinte emozionali – emergenziali.
Recentemente si sono verificati due episodi che hanno impattato emotivamente sulla pubblica opinione in quanto hanno coinvolto in infortuni mortali due giovani donne e madri.
Questi tragici eventi hanno attirato l’attenzione da parte dei mass media con il conseguente impatto sulla pubblica opinione.
A questo punto, i politici che, in genere, sanno poco o nulla di sicurezza sul lavoro ma sono, invece, molto attenti a cosa pensa la pubblica opinione, hanno fatto quello che sanno fare meglio e cioè utilizzare tale opportunità, ai fini del mantenimento o incremento del consenso popolare.
Ecco, quindi, che dopo questi tragici eventi abbiamo assistito alla solita sequela di dichiarazioni del tipo:
- <<Questi tragici fatti non devono più avvenire!>>
- <<Gli infortuni sul lavoro sono una piega che va estirpata!>>
- << Siamo un Paese leader in Europa e quindi non è accettabile che in Italia avvengano episodi del genere!>>
- <<Ci vogliono nuove leggi più efficaci!>>
- << Bisogna assumere più ispettori per fare maggiori controlli!>>
- <<Bisogna introdurre il reato di omicidio sul lavoro>>
e,dulcis in fundo
- << Ci vuole una Procura Nazionale del Lavoro!>>.
Insomma, come al solito, si parla alla pancia della pubblica opinione.
Riguardo l’ultima proposta, è stato presentato il Disegno di Legge n° 2052 riguardante le “Disposizioni in materia di coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati in materia di igiene e sicurezza sul lavoro”.
Certamente va accolta positivamente tale iniziativa in quanto sicuramente aumenterà l’efficacia dell’azione penale per questo tipo di reati ma non va neanche dimenticato che, così facendo, si continua ad intervenire sugli effetti per reprimere i reati.
E per prevenire i reati che facciamo?
Oppure pensiamo, molto ma molto ottimisticamente, che questa Procura specializzata possa anche essere un deterrente efficace per prevenire questa tipologia di reati?
Poi, riguardo all’altra iniziativa sbandierata in ogni occasione negli ultimi tempi, relativa alle 2.133 nuove assunzioni di funzionari dell’INL, siamo veramente convinti che basti aumentare i controlli?
Inoltre, andando a guardare il bando di concorso, si potrà notare che si tratta di funzionari amministrativi [1] ed il cui percorso di studi, ovviamente, sarà di un certo tipo e, quindi, ben lontano da quelle competenze tecniche necessarie per intervenire nelle realtà produttive e ciò senza dimenticare che l’INL opera, con i propri funzionari tecnici, in un ristrettissimo ambito essendo le Regioni con i servizi di prevenzione delle ASL incaricate al riguardo.
Quindi, appare chiare quale sia l’obiettivo su cui si vuole intervenire e cioè la repressione dell’evasione contributiva ed assicurativa (lavoro nero, caporalato, ecc.).
Obiettivo assolutamente condivisibile per le ovvie ragioni ma ……
Comunque, oggi, in Italia, ci sono più di 4.377.379 imprese (dati ISTAT).
Quindi, anche se decuplicassimo il numero funzionari ispettivi (oggi 6.000 ca.), non saremmo mai in grado di effettuare i controlli, anche con piani mirati.
Appare, dunque, palese che serva anche ben altro.
L’Italia, negli ultimi 40 anni, è stata affetta da una vera e propria epidemia normorroica i cui effetti sono stati quelli di una crescita esponenziale del corpus normativo riguardante la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro, spesso con norme che si sovrapponevano alle esistenti creando il solito scenario confusionale grazie al quale molti soggetti hanno tratto sostentamento economico.
Del resto, vale sempre la solita cinica considerazione e cioè:
<<Più che quante persone muoiono per la non-sicurezza, dovremmo domandarci quante persone ci campano>>.
Ciò è avvenuto anche perché non c’è mai stata l’abitudine di coinvolgere, al tavolo dove si scrivono le norme, anche gli attori che già operano nel settore che si vuole normare e che, quindi, hanno conoscenza approfondita dal di dentro delle dinamiche organizzative, produttive e relazionali specifiche.
E quando si parla di attori che operano sul campo, non ci si riferisce ai professionisti della rappresentanza inviati ai tavoli di discussione da associazioni datoriali, sindacali, professionali, ecc., ma si parla di soggetti indipendenti in possesso di provate competenze specifiche, selezionati per titoli in modo trasparente nel mondo del lavoro.
Invece capita, molto più spesso di quanto si possa pensare, che gli organi tecnici e i professionisti della rappresentanza, delegati e coinvolti dai politici a scrivere le nuove regole, raramente abbiano tra le loro fila soggetti in possesso di una conoscenza approfondita della specifica tematica da normare o ri-normare.
Guardando quello che è successo in un recente passato, sembra quasi che questi soggetti pensino di essere considerati gli unici detentori del sapere sullo specifico argomento visto che i politici hanno loro conferito l’incarico di normare.
Sotto, sotto, però, sono anche consci di non conoscere adeguatamente la specifica tematica e che, pertanto, essendo loro gli esperti, ciò significhi che in Italia nessuno conosca l’argomento e che nessuno, prima di loro, si sia posto il problema per trovare una soluzione.
Il problema, però, è che non conoscendo approfonditamente la tematica, si ritrovano, più o meno consciamente, a scrivere nuove regole che, in concreto, non sono altro che nuovi adempimenti formali, spesso non chiari e mal scritti e quindi aperti alle varie interpretazioni, con la conseguenza più che ovvia di produrre solo un aumento del carico burocratico senza alcuna concreta ricaduta sul livello di sicurezza e tutela della salute.
Ciò che scaturisce da questa prassi legislativa, è un prodotto frutto di una visione particolare quasi sempre incompleta che, non abbracciando il problema nella sua complessità, presenta soluzioni di difficile applicabilità, non condivise dagli attori che saranno chiamati ad applicarle sul campo, spesso controverse e, quindi, aperte alle più variegate interpretazioni.
A questo punto, chi opera sul campo, spesso influenzato dall’Effetto Dunning – Kruger [2], visto il clamore ed il livello di attenzione suscitato dalla nuova norma, sapientemente mantenuto alto da chi ne ha fatto uno specifico business nel settore (gli esempi, anche negli ultimi tempi, non mancano), ha sempre privilegiato le interpretazioni più integral-talebane, aumentando la burocratizzazione delle regole, credendo così di preservarsi da eventuali azioni giudiziarie in caso di visite ispettive o, peggio, in caso di gravi eventi infortunistici.
Ad esempio, abbiamo una azienda committente del settore energetico che nei suoi cantieri chiede il POS (Piano Operativo di Sicurezza) all’impresa che si occupa solo della pulizia dei box prefabbricati destinati ad uffici oppure il CSE che chiede all’impresa affidataria ed alle imprese esecutrici di prevedere nel POS la valutazione del rischio vibrazioni per il personale alla guida delle autovetture aziendali durante gli spostamenti su strada.
Comunque, va ricordato che le norme di legge ed i controlli servono solo a rafforzare le responsabilità attraverso le sanzioni ma, proprio per questo, non possono fornire, da sole, sufficienti motivazioni al cambiamento di atteggiamenti verso il problema sicurezza sul lavoro. È palese che basti che la fonte del condizionamento (pressioni della pubblica opinione, azione degli enti di vigilanza e/o della magistratura, ecc.) diminuisca, per qualunque ragione, la propria intensità per ritornare al punto di partenza.
Quindi, possiamo affermare, senza dubbio alcuno, che il nostro attuale sistema normativo in tema di SSL è, quantomeno affetto da acromegalia.
Pertanto, in primis, dovremmo piantarla di pensare a nuove leggi o ad altre istituzioni repressive ma invece rivedere integralmente l’enorme corpus normativo assolutamente scoordinato e libero all’interpretazione degli addetti ai lavori, del singolo funzionario di un ente di vigilanza, di un PM o di un giudice.
Stante l’attuale situazione, il risultato è che, nelle aziende, piccole o grandi che siano, la SSL viene percepita come un insieme di norme e procedure, totalmente estranea alla gestione aziendale, che non porta alcun valore aggiunto e, anzi, va a creare ostacoli al fare impresa.
Oggi, l’imprenditore medio, pensa che ci siano così tante norme e regole da non poter mai essere, in concreto, realmente rispettate.
Sembra che il legislatore da una parte si si sia divertito a spaccare il capello in quattro su aspetti senza alcuna importanza concreta e, dall’altra, a sorvolare su una serie di punti che, invece, necessitavano di un maggiore approfondimento e dettaglio e il tutto senza curarsi della successiva difficoltà applicativa nel normale contesto della gestione aziendale, piccolo o grande che sia.
Oggi, in Italia, ci sono 4.377.379 imprese e, di queste, 4.149.572 hanno meno di 10 dipendenti pari al 94,8% del totale (Fonte ISTAT).
Per il legislatore sembra quasi che non vi sia alcuna differenza tra la metalmeccanica Rossi Snc con due soci e 3 dipendenti e la metalmeccanica Verdi SpA con 3000 dipendenti e 5 stabilimenti.
Insomma, nessuna valutazione delle differenze in termini di dimensione e complessità pur se nello stesso comparto produttivo.
Ciò vuol dire che la stragrande maggioranza delle imprese (94,8%) non sono neanche lontanamente in grado di darsi una struttura organizzativa per adempiere ad una serie di obblighi che il legislatore, invece, dà per scontati.
Va anche ricordato che la mole di adempimenti, spesso formali, è tale da rendere difficile, anche nelle grandi aziende strutturate, sia il concreto adempimento che il relativo controllo delle norme di legge e regolamentari per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.
La conseguenza è che, spesso, anche nelle grandi aziende non si riesce ad essere consapevoli se quanto previsto sia stato o no realmente adempiuto correttamente.
Pertanto, i vertici aziendali concentrano le loro attenzioni, in tema di salute e sicurezza, su ciò che è da loro percepito, in quel determinato contesto e momento temporale, come necessario per continuare l’esercizio imprenditoriale, limitando a questo gli investimenti prevenzionali.
In questo scenario, siccome il nostro sistema prevenzionale è da manutenzione a guasto, basta che si verifichi un evento che abbia un elevato impatto emozionale perché i politici mettano in piedi la replica del solito spettacolino in cui propinano la solita minestrina riscaldata servita dai noti necrofori della prevenzione alla perenne ricerca di visibilità ed onnipresenti sui massmedia ed anche sui social tematici.
Come scritto all’inizio di questo contributo, in questi ultimi giorni, sembra che la soluzione finale sia quella dell’assunzione di personale per le attività ispettive e l’istituzione della nuova Procura Nazionale del Lavoro.
Il problema vero, su cui nessuno vuole tentare di trovare una soluzione, è intervenire sul nostro sistema che è solo di tipo repressivo e non anche incentivante e premiante.
Siamo rimasti al Codice Rocco e cioè a norme emanate quando c’era LVI.
Quanto l’INAIL propone da anni, palesemente non basta.
Oggi, qualunque cosa succeda in un’azienda, sia le norme di legge che la giurisprudenza, attribuiscono tout court alla posizione apicale una responsabilità oggettiva di ciò che è avvenuto.
Se da una parte è vero che chi sta in cima alla piramide gerarchica aziendale non può certo disinteressarsi di ciò che avviene in impresa, dall’altra questo approccio porta ad una deresponsabilizzazione delle altre figure presenti, in particolare, alla base della gerarchia aziendale.
Appare chiaro che tutto ciò è totalmente in contrasto con quello che ci raccontano gli esperti di organizzazione aziendale che spingono, traendo spunto da quanto importato da paesi come il Giappone già alla fine degli anni ’80, verso la condivisione e la co-responsabilizzazione a tutti i livelli.
Pertanto, l’ovvia conseguenza è che i primi a considerare le iniziative per la tutela della salute e della sicurezza sul lavoro come una rottura di balle sono i preposti e i lavoratori con il risultato che nessuno di loro si sente responsabile di ciò che fa o avrebbe dovuto fare.
Il risultato ultimo è che l’impresa percepisce la sicurezza sul lavoro come qualcosa di estraneo alla normale gestione aziendale a cui ci si deve solo adattare con la minor fatica possibile.
È evidente che per smantellare questo circolo vizioso, la prima cosa da fare è modificare il nostro sistema regolatorio in modo da renderlo più semplice, meno acromegalico e, soprattutto, in grado di adattarsi alle organizzazioni aziendali in funzione delle loro particolarità.
Un esempio per tutti.
In Gran Bretagna è stata recepita la direttiva cantieri 92/57/CEE ma nel recepimento, mantenendo i requisiti minimi imposti, hanno tenuto conto che il committente poteva essere anche Mrs. Rose Smith che, certamente, non era neanche lontanamente in grado di attuare, come committente, quanto previsto dalla direttiva.
Di conseguenza, hanno fatto una distinzione tra gli obblighi attribuibili al committente privato (Domestic Client) e quelli attribuibili alle altre tipologie di committente (Commercial Client). Da noi, invece, la signora Rosina che deve ristrutturare l’appartamento della nonna per la figlia che si sposa, si trova ad avere le stesse incombenze di una multinazionale di Real Estate che deve ristrutturare un intero palazzo in centro a Roma.
Personalmente penso che la UE abbiamo commesso un grave errore nel lasciare ai singoli Stati membri la possibilità di recepire le direttive sociali con un apposito provvedimento senza ricorrere ai Regolamenti come, invece, ha fatto per il REACH e, recentemente, per la direttiva macchine (Regolamento di prossima pubblicazione).
C’è solo da sperare che, visto il particolare momento, anche la UE passi, per contagio, ai Regolamenti in tema di SSL in modo che ci sia uniformità in tutti gli Stati membri.
Chiudo con una riflessione finale.
Se da una parte è giusto che ogni singolo lavoratore sia tutelato durante la propria prestazione lavorativa, dall’altra è anche giusto che i datori di lavoro e le altre figure apicali non vengano automaticamente indagati a causa di adempimenti formali, bizantinismi vari, norme nebulose e interpretazioni ondivaghe dell’Autorità Giudiziaria.
Il primo passo, quindi, è proprio la modifica del corpus normativo semplificando e plasmandolo, in funzione delle particolarità del nostro Paese.
Poi potremo pensare anche ad altro.
Se prima ciò non verrà fatto, difficilmente potremo vedere dei reali miglioramenti.
L’obiettivo finale sarà quello di far percepire che il lavorare in sicurezza è conveniente per le aziende, piccole, medie o grandi che siano.